Liberarsi dagli stereotipi

Diario di bordo

Scrive Mauro Varotto, in “Montagne di mezzo”, quello che ritengo il testo più affascinante degli ultimi anni sui temi della (geografia territoriale della) montagna: “Se vogliono mantenere la loro differenza ed essere luogo della medietas, in grado di dare ospitalità a tante funzioni insieme, le montagne di mezzo devono liberarsi degli stereotipi e delle semplificazioni che hanno omologato l’immaginario turistico contemporaneo, trasformando tante fenomenologie montane in una immagine unica, reiterata all’infinito, tanto da costringere il complesso caleidoscopio della montagna reale ad aderire il più possibile al clichè che il turista si aspetta di incontrare (…). In molti si sono cimentati nel fornire un catalogo degli stereotipi della montagna (…): la montagna sapienziale, la montagna agonistica, la montagna poetica, la montagna turistica e quella alternativa. Al di là delle varie articolazioni possibili, gli stereotipi più ricorrenti si possono suddividere in due grandi famiglie, solo apparentemente in contrapposizione: quella delle “Alpi romantiche”, montagne intese come stato originario di natura e cultura, e quella delle “Alpi ludiche” e del corteggio di stereotipi connessi alla modernità, ovvero il playground turistico, alpinistico, ricreativo delle economie del tempo libero”.

Sono parole che ci fanno riflettere, e che fungono da monito rispetto a quello che proviamo a (non) fare ormai da tanti mesi. Forse qualche volta ci siamo cascati, per arrivare lentamente e con il tempo a una sorta di maturazione, capace di metterci all’erta rispetto ai rischi citati. All’erta soprattutto dall’estrattivismo, un fenomeno che tormenta le montagne da secoli e che non esita a ridursi, un estrattivismo endogeno – abitarci non rende immuni dal rischio – , in una sorta di economia di sussistenza (a volte sul filo del legittimo) dei suoi abitanti, ma soprattutto un estrattivismo esogeno, di chi fa della montagna una quinta scenografica di interessi altri, di chi utilizza il capitale relazionale e di comunità (che in certi luoghi è molto fragile, soggetto a repentini cambiamenti) come mezzo e non come fine.

Le montagne di mezzo devono liberarsi degli stereotipi e delle semplificazioni che hanno omologato l’immaginario turistico contemporaneo, trasformando tante fenomenologie montane in una immagine unica

E’ una montagna di una complessità pazzesca, dove i legami sono invisibili (e trasparenti), dove esistono milioni di colori, dove tutto è sfumatura, dove il bello si staglia evidente così come il brutto, è una montagna abitata, dove si può essere se stessi in purezza (ma questo vale per tanti piccoli paesi compreso il mio), dove si è quello che si è, non solo quello che si è sempre stati o ciò che si deve essere. Dove niente è come sembra perchè non è un territorio geografico ma un territorio di reti, e non finisce dove finisce la strada – ovvero dove inizia il massiccio dell’Adamello, ma è molto più esteso perchè viaggia nel tempo, nella memoria, fino alla pianura, fino alla città, e ci arriva molto più velocemente (e a orari inimmaginabili per una abitudine urbana) rispetto alla velocità del tragitto contrario.

Prosegue Varotto: “tutto ciò in assenza di contrappesi e contromisure, induce presto ad adeguare la realtà alle aspettative: il territorio montano si conforma all’immagine di sè, insegue lo stereotipo sullo stesso terreno, alimenta la messinscena di una dimensione artefatta e teatralizzata dell’ambiente e delle comunità alpine a cui le comunità si adeguano in nome dell’unico modello economico possibile, ma non sostenibile”.

Giovanni Pizzochero

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