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Un percorso partecipativo di valorizzazione.
Diario di bordo
Perchè parlare di Cambiamento Climatico?
Mentre preparavamo questa riflessione abbiamo colto l’occasione per condividere la domanda con colleghi e amici che hanno restituito risposte diversificate mosse da sensibilità, conoscenze e vissuti diversi l’uno d’altro. Il bias è che abbiamo chiesto solo a persone che avevano una risposta: se facessimo la stessa domanda ad un campione eterogeneo di popolazione probabilmente riceveremmo anche “non risposte”, o risposte negative.
Tra le risposte:
Perché è urgente,
Perché ho paura,
Per fare massa critica,
Per conoscere,
Per decostruire modellli, e costruirne di nuovi,
Per ribellarsi,
Per passare da essere consumatori a cittadini,
Per problematizzare quello che diamo come sacro e immutabile tra cui modelli economici e stili di vita
Per unire i puntini,
Per dirci che la risposta e le responsabilità non sono individuali, ma collettive
Una risposta che forse tiene insieme alcune di quelle sopra, è che dobbiamo parlare di questi temi con tutti i mezzi (letterari, visivi e performativi…) per imparare a parlarne, o, come rivendicano gli attivisti di XR, per imparare a “dire la verità”. Ma cosa vuol dire, “dire la verità?”.
Vuol dire far entrare nel dibattito pubblico il tema del cambiamento climatico, e dare gli strumenti ai cittadini per entrare nel merito delle questioni ed essere attori/cittadini/consumatori informati. Vuol dire abilitare.
Alcune volte su questo tema, come su anche altri, ci raccontiamo che “la materia è troppo tecnica” o che ormai abbiamo soglie di attenzione così basse, siamo così distratti, che è difficile pensare ad una presa di coscienza collettiva, un coinvolgimento reale di gran parte della popolazione.
A noi queste spiegazioni non convincono tanto perché le prove generali su come ci organizziamo e viviamo un’emergenza, anche sotto il profilo mediatico e culturale, le abbiamo appena fatte con la pandemia. E con la pandemia grazie alla mobilitazione massiva di tutti gli operatori dell’informazione e culturali siamo stati abilitati a conoscere il problema, avere una posizione sulle scelte politiche e sulla bontà dei vaccini, ancorché solo una minima parte di noi avesse un background tecnico scientifico in virologia o sanità pubblica. Insomma, ci siamo fatti gli strumenti in gran parte a partire da dati e scenari scientifici perché abbiamo capito che era fondamentale orientarsi in una situazione emergenziale.
Analogamente, fare entrare il tema del Cambiamento Climatico nel dibattito pubblico, a partire dalla conoscenza scientifica, in tutta chiarezza e rigore aiuterebbe enormemente a risparmiare tempo, e a focalizzare gli sforzi su quello che è necessario fare.
Eviteremmo così rappresentazioni improprie del problema: da una parte, ancora, gli scettici/ottimisti e dall’altra i catastrofisti. Quando è evidente che dal punto di vista scientifico non c’è nessuna polarizzazione. Il consenso intorno al Cambiamento Climatico di natura antropica è praticamente al 100%, e se proprio volessimo polarizzare la bilancia penderebbe enormemente dalla parte dei catastrofisti.
Eviteremmo anche discussioni fintamente ideologiche intorno a temi su cui, grazie agli strumenti di contabilità ambientale, la comunità scientifica si è ampiamente espressa. Pensiamo al consumo di carne o l’utilizzo di massa dell’aereo da parte dei paesi industrializzati.
Riusciremmo forse anche a rendere ancora più condivisibile l’idea che non c’è giustizia climatica senza giustizia sociale perché sapremmo che le emissioni del passato e del presente sostengono il modello economico di una sola parte di mondo.
Esempio recente su come rendere molto accessibile il tema, cercando di dare strumenti di base a tutti è “Il mondo senza fine”, graphic novel di Christophe Blain e Jean-Marc Jancovici, il libro più venduto in Francia nel 2022.
Fare cultura sul Cambiamento Climatico è importante perché abbiamo bisogno di storie. Servono le storie di chi sta già subendo le conseguenze del fenomeno, storie che ci aiutino ad empatizzare. Pensiamo all’Emila Romagna, o alle popolazioni che stanno già affrontando l’innalzamento del livello del mare e la salinizzazione delle falde…
Ma abbiamo anche bisogno di storie di speranza.
Come ha scritto REBECCA SOLNIT, una scrittrice statunitense in un articolo uscito su Internazionale nel febbraio di quest’anno “Ogni crisi è anche una crisi di narrazione e questo vale anche per la crisi climatica”
E facendo riferimento alla narrazione che ci si aspetta sul Cambiamento Climatico:
“Un messaggio che ci arriva dai film e dai libri di narrativa è l’aspettativa di una soluzione unica dei nostri problemi: una vittoria improvvisa, una celebrazione, e i problemi sono finiti. La crisi climatica non rientra facilmente in questo schema” (…)
Ci sono pietre miliari e obiettivi importanti, ma il classico finale hollywoodiano – tagliare un traguardo che conclude la storia – non descrive la realtà in cui viviamo.
Il cambiamento spesso funziona più come una staffetta, con nuovi protagonisti che ripartono da dove si è fermato chi li ha preceduti”
Il racconto ci aiuta a leggere i diversi tentativi, gli slanci reiterati nel lungo periodo a dirci che non stiamo percorrendo i 100 m da velocisti, ma che stiamo facendo una staffetta, dove è importante portare il testimone più lontano possibile, o almeno al prossimo compagno di viaggio.
Pensiamo agli scioperi per il clima, a cui sono seguite le dichiarazioni di emergenza climatica di alcune città, il Green New Deal, pensiamo al lavoro di alcuni ricercatori, come Primavera Silenziosa di “Rachel Carson”. Sono storie che vanno lette e raccontate nel medio periodo e su cui è importante ampliare lo sguardo, ma che meritano di essere raccontate come successi collettivi.
Infine, abbiamo bisogno di parlare di Cambiamento Climatico per accogliere la responsabilità derivante dai nostri diritti e privilegi, accettando però che non saremo risolutivi o, come titola Naomi Klein in un discorso tenuto in un’università americana nel 2015 “Smettetela di cercare di salvare il mondo da soli”.
Il riferimento è alla fatica e all’ansia dei giovani (e meno giovani), di trovare un proprio posto professionale e umano in un mondo alle porte di una crisi ecologica, sociale ed economica. Persone appesantite dal desiderio di fare la propria parte ma frustrate dall’enormità del problema.
“Potrà sembrare che ogni singola decisione nella vita, se andare a lavorare in una ong nazionale o in un progetto locale di permacultura o in un star-up verde, se lavorare con gli animali o con le persone, se fare lo scienziato o l’artista, se andare all’università o avere figli, ti scarichi sulle spalle tutto il peso del mondo.
Sono stata turbata da questo impossibile fardello di cui alcuni di voi stanno per farsi carico quando sono stata contatta di recente da una ventunenne studentessa australiana di scienze, Zoe Buckley Lennox. Quando mi ha raggiunta per telefono era accampata sulla piattaforma di trivellazione artica della Shell in mezzo all’Oceaano Pacifico. Era una dei sei attivisti di Green Peace che avevano scalato quella gigantesca struttura per rallentare il suo passaggio e attirare l’attenzione sulla follia di andare a trivellare nell’Artide in cerca di petrolio. Sono rimasti lì per una settimana in mezzo all’ululare dei venti.
Mentre erano ancora lì sopra sono riuscita a chiamare Zoe sul telefono satellitare di GreenPeace, solo per ringraziarla di persona per il suo coraggio. Sapete che cos’ha fatto? Mi ha chiesto: “Come si fa a sapere che stai facendo la cosa giusta? Cioè, ci sono anche i disinvestimenti. C’è anche il lobbismo. C’è la conferenza sul Clima di Parigi”.
Sono rimasta molto colpita dalla sua serietà, a momenti mi mettevo a piangere. Eccola lì, che faceva una delle più incredibili cosa immaginabili, che si congelava il sedere cercando di fermare fisicamente con il proprio corpo le trivellazioni nell’Artide. Eppure, sotto i suoi sette strati di vestiti e l’attrezzatura da arrampicata si stava ancora fustigando, si chiedeva se avrebbe dovuto fare qualcos’altro.
Le ho detto quello che dico a voi adesso. Ciò che stai facendo è incredibile. E sarà stupefacente anche ciò che farai dopo. Perché non sei sola. Fai parte di un movimento. E quel movimento sta operando presso le Nazioni Unite e si candida alle elezioni e spinge di bloccare le trivellazioni artiche al Congresso e nelle aule del tribunale. E in mare aperto. Tutto in contemporanea. E sì, dobbiamo crescere più alla svelta e fare di più. Ma il peso del mondo non grava sulle spalle di una sola persona, non sulle vostre o su quelle di Zoe. Non sulle mie. Grava sulla forza del progetto di trasformazione a cui partecipano milioni di persone.”
Naomi Klein, On fire- The (burning) case for a green new deal – 2019
Articolo di Monica Risso
In foto: “A proposito di cambiamento climatico”, Giovanni dallo Spazio, 2023, Oratorio di Cevo
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